Il signore del male (2008, UnMondoAparte Edizioni)
Fu nel novembre del 1985 che vidi per la prima volta Halloween e da allora, la vita, per me, non fu più la stessa. Eludendo la vigile censura dei genitori (“si tratta di un innocuo film di fantascienza” fu la semplice quanto geniale giustificazione di un bambino di dieci anni) e approfittando della complice benevolenza di un negoziante progressista, riuscii a noleggiare quella mitica videocassetta dalla copertina invitante che, così tante volte, avevo spiato nella vetrina della videoteca. All’epoca, in Italia, il mercato Home Video era agli inizi, i primi videoregistratori avevano fatto la loro comparsa nelle case degli italiani e le videocassette (dalle grandi e massicce custodie di plastica e con prezzi inarrivabili) si potevano solo noleggiare. Mi ricordo di essere rimasto mesmerizzato di fronte allo schermo, terrorizzato e contemporaneamente deliziato dalla visione di un così affascinante spettacolo. Da quanto mi posso ricordare (e da quanto mi raccontano i miei famigliari) sono sempre stato attratto morbosamente dal macabro e dal mistico regno del Soprannaturale, tuttavia, a livello di esperienza cinematografica, la cosa più “forte” che avevo visto sino a quel magico pomeriggio di novembre era stato Amityville Possession, discreto horror diretto nel 1982 da Damiano Damiani, ma che tuttavia non poteva nemmeno lontanamente essere paragonato alla “Halloween Experience” che avevo appena vissuto. Il Signore del Male aveva posato il suo tocco su di me, mi aveva mostrato cosa il cinema fosse in grado di fare e quali sensazioni (primarie, autentiche, sconvolgenti) fosse capace di risvegliare: di quel mondo, decisi inderogabilmente, dovevo assolutamente fare parte . Dopo Halloween, e di nascosto da mio padre che non si era ancora ripreso dalla furia omicida di Michael Myers, mi dedicai al veloce video-recupero degli altri film di John Carpenter: ed ecco allora che i sublimi fantasmi di The Fog, le strabilianti mutazioni di La cosa e il cinico ghigno di Jena Plissken (1997: Fuga da New York) mi resero, per sempre e senza compromessi un devoto discepolo carpenteriano. L’opera di Carpenter, però, mi aveva aperto le porte all’universo dell’Horror americano, o meglio al New Horror americano, ovvero a quella corrente di registi (Joe Dante, Tobe Hooper, Wes Craven, David Cronenberg ecc.) che, seguendo l’esempio di George A. Romero (La notte dei morti viventi, 1968), mettevano in scena storie cupe e disperate e si ergevano cantori di un “fantastico realistico” fortemente correlato alla società americana del periodo. E John Carpenter era uno di loro. Per troppo tempo, però, i più illustri rappresentati della critica cinematografica (soprattutto negli Stati Uniti) hanno considerato Carpenter e i suoi colleghi contemporanei come registi essenzialmente antiproblematici, artigiani creatori di filmetti horror senza spessore, di divertissement adatti solo ad un pubblico adolescente da drive-in. Insomma, un cinema che, in omaggio al killer del cinema carpenteriano per eccellenza, sarebbe stato unicamente Shape, cioè Forma, corpo e, per estensione, Forma senza Contenuto5. Questo è l’errore compiuto da quanti non riescono a cogliere l’enorme potenziale simbolico e sovversivo del fantastico; genere che da sempre veicola in maniera, appunto, simbolica e allegorica le ansie, le aspettative e le frustrazioni sociali di intere generazioni. Pensiamo solo alla letteratura gotica inglese del XVIII secolo (ma lo stesso discorso si può fare con la letteratura utopica e distopica; da Thomas More a George Orwell, infatti, essa è il luogo dove il rimosso politico prende forma) che con i suoi mostri, i fantasmi e i vampiri, fungeva da vero e proprio inconscio della letteratura borghese ufficiale (novel) fino alla metà del XIX secolo. Il fantastico infatti, con i suoi vari filoni, è espressione di un ambito che è sempre stato represso e rimosso, ed è connesso, quindi, alla sfera dell’inconscio. Questo genere letterario diventa il non visto della nostra realtà, la proiezione in forma di incubo di paure e timori della nostra società. Mentre nel caso della favola la critica alla società contemporanea è data dal desiderio di evadere in un mondo alternativo, nel caso della letteratura gotica (e anche del New Horror americano 70 / 80) troviamo una critica più o meno diretta alla realtà ufficiale. Contro l’immediata immersione nel reale che caratterizzava i realisti, gli scrittori gotici (H. Walpole, A. Radcliffe, G. Lewis) ponevano un permanente insieme di simboli e articolazioni dell’immaginario che rappresentavano, ad un secondo grado di lettura, i problemi e le paure della società contemporanea. Il periodo che vide la nascita del romanzo gotico era quello in cui le primitive forze dell’industrializzazione stavano producendo vasti mutamenti nel modo di vivere e lavorare delle persone. La stabilità di una struttura sociale accettata da tanto tempo, veniva dissolta fra la pressione di nuovi tipi di lavoro e nuovi ruoli sociali. Le leggi della nuova economia liberista aumentarono l’alienazione dell’individuo dal suo ambiente socio-economico. In questo tipo di società è facile individuare i legami tra la paura e la repressione dell’irrazionale e l’improvviso insorgere gotico di quello stesso irrazionale sotto forma di fantasmi e terrori. La narrativa gotica diventava così un processo di autoanalisi culturale e le immagini che essa esponeva non erano altro che le figure di sogno di un gruppo sociale turbato. Come esempio di questa “funzione sociale” della narrativa fantastica basti citare due capolavori tardo gotici come Frankestein (1818) di Mary Shelley e Dr. Jekill and Mr. Hide (1886), quest’ultimo la più chiara allegoria dell’ipocrisia e della repressione vittoriana. Analizzando allo stesso modo il cinema horror americano degli anni Settanta e Ottanta, è ugualmente facile capire il motivo per cui in una società fortemente destabilizzata (dall’assassinio di J.F.K e M. L. King, dalla guerra del Vietnam, dalla crisi finanziaria, dalla dissoluzione del modello “canonico” di famiglia, fino al caso Watergate), irrompano sullo schermo cinematografico cannibali armati di motosega, killer indistruttibili e immortali o demoni notturni con guanti dotati di rasoi. Alla luce di queste considerazioni, sembra apparire chiara e incontestabile l’affermazione del celebre studioso D. Punter secondo la quale “il principale valore dello studio della narrativa fantastica consiste nell’offrirci una ‘psicologia negativa’, una via d’accesso alle speranze e alle aspirazioni frustrate di tutta una cultura”. Con questo testo ho cercato di mettere in luce la grande forza allegorico-simbolica del New Horror americano sviluppatosi negli anni 70 e 80 e di rendere il giusto merito ad uno dei suoi più illustri rappresentanti: John Carpenter. Ho scelto di farlo analizzando otto pellicole in particolare, otto film che rappresentano al meglio (perlomeno per chi scrive) la visone carpenteriana del mondo e forniscono gli esempi adeguati per comprendere quanto il cinema di John Carpenter sia contemporaneamente lineare e complesso, ludico ed intellettuale e, soprattutto, fortemente politico senza mai essere didattico o “militante”. Nell’intervista in appendice risulta evidente quanto Carpenter, a costo di negare l’evidenza, rifugga da una lettura schiettamente politica del suo cinema in funzione di un’interpretazione più allegorica, magari più ingenuamente legata al Genere ma, comunque, priva di “messaggi” diretti. Senza contare che Carpenter, inoltre, porta avanti come pochi altri registi la lotta per una totale indipendenza creativa: il suo “fare cinema” è dunque un primo e significativo gesto politico. Allo stesso modo di Sam Fuller, Carpenter non transige di fronte all’esigenza di avere l’ultima parola sul montaggio definitivo di ogni suo film (quel famoso “Final Cut” che gli vale la piena responsabilità sul film e anche la presenza del suo nome associato al titolo – John Carpenter’s …). Ma volendo tornare a parlare di “politica” in senso stretto, occorre ricordare come John Carpenter sia stato l’unico regista americano che abbia avuto il coraggio di denunciare direttamente e lucidamente tutto il male che Ronald Reagan aveva fatto agli Stati Uniti durante gli anni del suo doppio mandato presidenziale. In Essi vivono (1989) infatti, gli alieni si mescolano tra i ricchi e controllano il potere affabulatorio dei media e della pubblicità; essi sono per Carpenter dei liberi imprenditori dello spazio che sfruttano la terra come gli americani hanno fatto per anni nei confronti del terzo mondo. Già nel 1980 la nebbia di The Fog era stata usata dal regista del Kentucky come una metafora essenzialmente politica. Carpenter voleva risvegliare la memoria addormentata del popolo americano stabilendo un parallelo tra la conquista compiuta dai Padri Fondatori (è noto come gli USA furono fondati sul massacro delle popolazioni indigene che vennero derubate della loro ricchezza) e quella del paesino costiero Antonio Bay, compiuta da sei traditori assassini. Tramite il suo primo, vero film (Distretto 13, le brigate della morte), invece, il regista americano ha messo in scena un vibrante remake metropolitano di Un dollaro d’onore per rendere testimonianza della misura in cui la violenza e il degrado si erano impadronite delle grandi città statunitensi; tematica questa che troverà pieno sviluppo nella “fumettosa” distopia nota come 1997: Fuga da New York. Ma il male, ci insegna Carpenter, avanza (spesso e volentieri) mascherato e si manifesta dove meno ce lo aspettiamo; è per questo motivo che una deliziosa cittadina del Midwest (così diversa dalla cancerosa isola di Manhattan trasformata in una colonia penale a cielo aperto) muta, durante la notte di Halloween, in un luogo di tregenda in cui tutti i peccati della comunità prendono forma (The Shape!) attraverso le gesta vendicatrici di un simbolico Uomo Nero. E non c’è salvezza. Nemmeno nei rapporti umani. Carpenter, cresciuto a Bowling Green nel Kentucky, piccola città facente parte della famigerata Bible Belt in cui razzismo ed egoismo dominavano sovrani, sa bene cosa si nasconda dietro l’apparente normalità fatta di persiane bianche, torte di mele sui davanzali e giardini bene curati. Individualismo, sfiducia nelle istituzioni, disgregazione famigliare: sono queste le caratteristiche “di secondo grado” che possiamo rintracciare nei film di Carpenter degli anni Settanta. Poi, nel 1980, la destra repubblicana e conservatrice di Ronald Reagan vince le elezioni inaugurando un decennio dominato dall’apparenza, dall’edonismo e dalla progressiva scomparsa dei contatti umani (dovuti, in buona parte, all’insorgere dell’AIDS). Sul grande schermo compare l’estetica da video clip; film come Flashdance (1983, di Adrian Lyne) o Electric Dreams (1984, di Steve Barron) diventano il mezzo perfetto per anestetizzare la mente di un pubblico sempre meno recettivo nei confronti di un’indagine critica legata alla realtà sociale vissuta quotidianamente da milioni di persone completamente acritiche verso ciò che veniva loro offerto. Infatti, l’estetica superficiale e patinata di film come Nove settimane e mezzo, (1986, di Adrian Lyne) mirava proprio ad allontanare l’interesse della popolazione (leggi “elettori”) dall’osservazione attiva e partecipe di una società sempre più compromessa. E allora è ancora un cineasta “antiproblematico” come John Carpenter a fotografare con il film La cosa (1982) una società governata da paranoia e perdita di identità, dove proprio il corpo (e le sue mutazioni: leggi cancro e AIDS) diventa il Grande Nemico. Come scrive acutamente Giorgio Cremonini in un saggio del 1983, “non dobbiamo più stare attenti al cielo. La cosa è già dentro di noi”. Nel corso degli anni Novanta, l’interesse di John Carpenter si è relativamente spostato dalle tematiche sociopolitiche (ma sarebbe meglio dire dalla rielaborazione “fantastica” dei mutamenti osservati in ambito sociale) all’analisi dei rapporti che si istaurano tra spettatore, regista e personaggio di fiction; il fantastico realistico carpenteriano (senza, peraltro, abbandonare lo sguardo sul sociale) si occupa, quindi, di leggere e interpretare il funzionamento e le implicazioni della “macchina cinema”. Se già con Essi vivono Carpenter approfondisce e sviluppa il tema della “visione”, nel 1994 il regista realizza il suo progetto più ambizioso: Il seme della follia, un viaggio metacinematografico tra i mondi paralleli di H.P. Lovecraft e P.K. Dick che riflette sulla percezione della realtà e sul condizionamento messo in opera dai mezzi di comunicazione di massa. Il 1996, invece, vede il ritorno di Jena Plissken in Fuga da L.A., geniale saggio di metacinema tramite il quale Carpenter attacca dall’interno (il film è prodotto dalla Paramount!) le grandi major hollywoodiane nonché la logica stessa del sequel-remake, confermando di essere sempre più, come ha lucidamente osservato Kent Jones, “un uomo analogico in un mondo digitale” Negli ultimi anni, John Carpenter non si è dimostrato molto prolifico. Dopo averci regalato quel gioiellino chiamato Fantasmi da Marte (2001), una specie di saggio-teorico atto a riassumere in un unico “contenitore” tutte le caratteristiche fondamentale del cinema carpenteriano (oppure si potrebbe definire come un “Distretto 13 su Marte” in cui gli “oscuri assedianti” non sono più i fantasmi degli indiani americani, ma i rappresentanti di tutte quelle popolazioni indigene espropriate dall’imperialismo a Stelle e Strisce), il regista di Halloween ha preferito prendersi una pausa di riflessione, nella quale ha trovato il tempo di realizzare due preziosi episodi per la fortunata serie TV “Masters of Horror” creata e prodotta dal regista/sceneggiatore Mick Garris. Ma è un pausa che, quasi sicuramente, sarà destinata ad interrompersi presto perché, come dice sempre John, “il Male non muore mai”.