India. Due uomini in un bar trattano l’acquisto di una strana scatola metallica. Stacco. All’interno di una stanza illuminata da candele, uno dei due uomini armeggia con la scatola fino a quando riesce a modificarne l’aspetto: d’un tratto il suo corpo viene trafitto da uncini provenienti dal nulla. Stacco. In una casa abbandonata delle strane figure vestite di pelle nera ricompongono i brandelli del viso del malcapitato mentre un palo della tortura gira su sé stesso adornato di macabri trofei umani. Un uomo con dei chiodi piantati in faccia ricompone la scatola nella sua forma quadrata. Un lampo e l’inferno scompare lasciando la stana vuota. Comincia così Hellraiser, uno degli horror più cupi e radicali di tutti gli anni Ottanta, nonché esordio dietro alla macchina da presa dello scrittore inglese Clive Barker. Indicato più volte come “l’erede naturale di Stephen King”, Barker con questo film da lui sceneggiato ha resuscitato l’horror britannico che, fino ad allora, viveva sui ricordi dei film targati Hammer. Un altro merito di Barker è stato quello di allargare l’Olimpo dei mostri di celluloide inventando i Cenobiti, o Supplizianti, che vedono in Pinhead (interpretato da Doug Bradley) il loro capo carismatico. Proprio Pinhead, con i suoi modi aristocratici e la sua capacità di rigenerarsi in una immutabile giovinezza (che lo accomunano a Dracula) è diventato, nel tempo, una vera e propria icona horror al pari di Michael Myers, Jason Vorhees e Freddy Krueger, assumendo in Giappone, un vero e proprio ruolo di sex symbol per uno stuolo di ragazzine in cerca di trasgressione. Ed è proprio la trasgressione unità ad una identità sessuale ambigua a rendere così affascinanti le figure dei cenobiti; il loro look costituito di pelle nera e catene rimanda apertamente ad un immaginario sado-maso che associa indissolubilmente piacere e dolore, Eros e Thanathos. Sono esperienze al di là di ogni limite quelle offerte dai Cenobiti agli ignari (?) possessori del cubo di Leviathan. La connotazione fortemente sessuale di questi mostri associa la pratica della trasgressione erotica a quella dell’autodistruzione, portando in luce così una delle grandi paure degli anni Ottanta: il contagio dell’AIDS, ed è sintomatico che a parlarne in modo simbolico sia un regista dichiaratamente omosessuale come Clive Barker.
Il lavoro di Barker assume ancora più rilievo se si osserva che attraverso questo tipo di estetica, il regista inglese ridona contemporaneità al tema della sessualità nel cinema dell’orrore esplicitando uno dei grandi sottintesi del cinema e della letteratura gotica: la contemporanea attrazione / repulsione verso ciò che è malvagio e proibito. Quando, in Hellraiser, Kirsty Cotton (Ashley Laurence) riesce a scappare dalle grinfie del malvagio zio Frank portandogli via la fantomatica scatola, non riesce a resistere alla tentazione di aprirla (così come la sua matrigna Julia non aveva saputo resistere alla tentazione dell’adulterio) scatenando in quel modo i malvagi Supplizianti. Mettendo il destino dell’umanità nelle mani di donne troppo deboli e curiose, Barker riattualizza l’immortale mito di Pandora, sostituendo il vaso con la scatola. Un altro aspetto estremamente interessante dell’universo orrorifico creato da Barker è la sua totale laicità: Dio non è contemplato (come vediamo quando Kirsty chiude simbolicamente nell’armadio la statua del Cristo). L’inferno dei Cenobiti (“Angeli per alcuni, Demoni per altri”) non prevede alternative, non esiste un Dio buono e redentore al quale appellarsi e il manicheismo dogmatico cristiano tipico di molti horror non può portare la minima consolazione dalla “dolce sofferenza” promulgata da Pinhead, come ci conferma Julia in Hellbound:HellraiserII: “Qui domina il Dio della carne, del sangue e del desiderio!”, più chiaro di così!. L’analisi sul corpo, così tipica del gore anni 80, tocca nella saga di Hellraiser alcune delle sue vette migliori (la rigenerazione di Frank che si trasforma partendo da una fanghiglia primordiale è di straordinario impatto visivo) esplicitando in una scena tanto morbosa quanto emblematica (il bacio tra il dottore e Julia completamente scuoiata in Hellraiser II) la fobia del contatto fisico che il cinema Ottantesco non ha mai smesso di sottolineare. Non è un caso, infatti, che i “rigenerati” acquisiscano l’energia a loro necessaria tramite baci mortali dati con sensuale irruenza alle vittime prescelte (espediente mutuato dal sottovalutato Space Vampires di Tobe Hooper): negli horror del periodo, la promiscuità sessuale (chiedetelo anche al buon Jason Vorhees!) porta alla distruzione fisica e alla morte. Se Hellraiser II appare visionario e fiabesco, saturo di un surrealismo che procede per accumulazione visiva a discapito della logica e di un gigantismo scenografico laccato che sembra provenire da un brutto incubo di Fellini, Hellraiser III è più canonico e controllato, conferma l’inventiva splatter (godibilissimo il massacro in discoteca) e sottolinea la linea laica della saga (tutta da godere la messa celebrata in chiesa da “Don Pinhead”). Completamente avulso il futuristico Hellraiser IV che vede i cenobiti dedicarsi alle loro scorribande in una astronave nello spazio profondo…ma d’altronde Clive Barker era lontano ormai da tempo. La saga dei cenobiti continua per il mercato home video. Nel 2000 esce Hellraiser V: Inferno, nel 2001 è la volta di Hellraiser VI:Hellseeker, mentre i capitoli 7 e 8, rispettivamente Hellraiser:Deader e Hellraiser Deadworld sono entrambi del 2005.
© Paolo Zelati - All rights reserved
Credits | Privacy Policy