Paolo Zelati

Interviste

Hideo Nakata parla di "Ringu", "Dark Water" e della sua esperienza a Hollywood

Intervista pubblicata su "Horror Mania"

Quali sono le fonti di ispirazione che l’hanno portata a realizzare “Ringu”?

Devo dire che il libro da cui ho preso la storia era già sufficientemente ricco di spunti; e per quanto riguarda l’aspetto visivo mi sono rifatto, in parte, alla tradizione della Ghost Story giapponese. Cosa pensa dell’invasione di horror asiatico, non sempre eccelso, che ha seguito il successo dei suoi film? Beh…penso che non spetti a me giudicare il lavoro degli altri registi…sicuramente posso osservare che tutti noi ci influenziamo a vicenda: è sempre stato così. Comunque è vero che alcuni autori hanno sfruttato un po’ troppo il successo di Ringu o Dark Water e li hanno eccessivamente imitati, ma è vero anche che altri autori hanno cercato di creare qualcosa di originale. Certo, a forza di sfruttare questo filone, oggi, il cinema dell’orrore asiatico sta perdendo di fascino e, sfortunatamente, i film asiatici non stanno più riscuotendo il successo che avevano due anni fa.

Parlando di horror asiatici, quali sono i film che più l’hanno colpita?

Sicuramente The Eye, un ottimo film di fantasmi del quale stavo preparando il remake americano…

Ma non pensa che “The Eye” sia un po’ troppo debitore non solo dei suoi film, ma anche di molti altri recenti successi americani tipi “Il sesto senso” e “The Mothman Prophecy” e che quindi il remake potrebbe diventare “la copia di una copia”?

Forse è vero…comunque è un problema che non mi preoccupa più dato che il progetto è fallito. Avrei dovuto fare il film l’anno scorso, ma lo Studio non riusciva a prendere una decisione e perciò sono tornato a vivere a Tokyo, dove sto preparando una ghost story in costume: un film epico, molto tradizionale che potrei paragonare, per certi versi, a Kwaidan.

Quali sono state le maggiori differenze da lei incontrate quando ha lavorato negli Stati Uniti per un big budget movie come “The Ring 2” rispetto a quando lavora in Giappone per film meno costosi ma più personali?

Prima di tutto, ti devo confessare che per quanto riguarda i miei film giapponesi, gli unici che si possono definire lavori “personali” sono due documentari; film come Ringu o Dark Water mi sono stati offerti da terzi e sono tratti da libri preesistenti, per cui faccio fatica a definirli opere personali. Lavorare negli Stati Uniti è stato sicuramente differente a causa delle responsabilità che si hanno rispetto al budget e a causa della pressione esercitata dallo Studio durante la lavorazione; detto questo, però, penso che il mondo del cinema sia abbastanza universale. In America, però, si ha l’impressione di sfornare prodotti industriali in serie piuttosto che film; a Hollywood si producono film nello stesso modo in cui vengono prodotte le macchine: una volta che un film è terminato, i produttori organizzano dei test con il pubblico, sui quali si basano per apportare eventuali modifiche alla storia e, spesso, al finale. Questa cosa dei test è l’elemento di grande diversità rispetto al Giappone, e proprio perché è stata un’esperienza così diversa, devo ammettere che mi sono divertito. Inoltre, tutto quanto questo processo produttivo è molto onesto rispetto alla natura commerciale dell’industria cinematografica.

Come e perché ha deciso di diventare un regista?

Io sono sempre stato un grande cinefilo fin dai tempi del College anche se non avevo mai pensato che sarei diventato parte di questo mondo. Tutta questa passione che avevo per i film mi ha portato a voler andare “oltre lo schermo”, a voler capire come funzionava l’industria dello spettacolo. Così ho cominciato facendo l’apprendista nella realizzazione di alcuni documentari, poi sono diventato aiuto-regista e ho capito che il mio sogno era quello di dirigere un film, quindi, passo dopo passo, sono arrivato a coronare il mio sogno.

Conosce il cinema horror italiano?

In realtà non conosco molto l’horror italiano…quando ero al College ho visto ed ammirato i film di Bellocchio, Bertolucci, Rossellini e Fellini, splendide opere d’arte. Inoltre, da quando sono venuto in Italia la prima volta nel 1993, ho imparato a conoscere e ad apprezzare la gente, la vostra cultura e le vostre tradizioni: mi piace l’Italia.

Quali sono i film che più l’hanno influenzata nel suo mestiere di regista?

Primariamente un film di Max Ophuls che si intitola "Letter from an Unknown Woman", un grande classico: quando l’ho scoperto, mi ricordo di essere andato a vederlo per una settimana di seguito e di aver capito all’ora quanto amassi la magia del cinema.

Una delle caratteristiche più interessanti dell’horror asiatico di valore è quella di essere uno specchio fedele di una società nella quale è sempre più difficile relazionarsi al prossimo ed instaurare legami duraturi: i suoi film “Ringu” e “Dark Water” hanno una grande importanza in questo senso, cosa ne pensa?

Sono d’accordo; in Ringu questa tematica è appena sfiorata, mentre in Dark Water rappresenta il collante dell’intera vicenda. Ci siamo basati su una short story nella quale i personaggi principali sono una mamma, la figlioletta e la ragazzina fantasma e la storia è principalmente un dramma umano. L’horror ha bisogno di una storia umana e realistica sulla quale instaurare l’orrore: in questo caso il fantasma si manifesta simbolicamente alla bambina nei momenti in cui la mamma è più disattenta e non la controlla. Descriverei il procedimento come un artifizio narrativo; io come regista non mi sono mai messo a tavolino a pensare: “Ok, adesso devo affrontare queste tematiche sociali!”, è un procedimento necessario all’evoluzione della storia quello di affrontare tematiche umane e realistiche. E’ come se la componente umana realistica dovesse bilanciare l’assurdità dei momenti soprannaturali: non esiste l’una senza l’altra.

Dando per scontato che il remake “The Ring” sia un buon film dal punto di vista della sensibilità horror tipicamente americana, cosa pensa del fatto che Verbinski abbia esplicitato nei dialoghi tutti quei sottotesti che nella sua versione erano impliciti e suggeriti?

Devi pensare che in America utilizzano quei famosi test di cui ti parlavo prima, per cui anche se il 90% del pubblico avevo capito tutto, c’era, magari, un 10% che aveva bisogno di una spiegazione per capire le varie relazioni tra i personaggi. Qualcuno come te può capire determinate cose che sullo schermo vengono solamente suggerite (e anch’io preferisco questa via), ma ci vuole un certo grado di sensibilità che non è comune a tutti; d’altronde la nostra cultura (asiatica, n.d.r.) è così: noi riusciamo a comunicare anche solo con lo sguardo. Questo tipo di espressione non verbale è una delle cose più difficili da esportare a Hollywood.

Come regista, lei preferisce mostrare o suggerire l’orrore?

Penso che vadano bene entrambi gli approcci. E’ vero che non bisogna mostrare troppo il “mostro” perché altrimenti il pubblico si annoia, ma è anche vero che se non si mostra nulla, o troppo poco, il pubblico può essere frustrato: serve un buon equilibrio. In Ringu, per esempio, ho tentato di mostrare il fantasma il meno possibile, per poi svelarne la figura nel finale, quando esce dalla televisione: questa era la mia strategia per spaventare. Per Ringu la strategia ha funzionato, ma non vuol dire che sia una regola buona per qualsiasi film. Secondo me aveva ragione Hitchcock quando indicava “il dosaggio della paura” come la cosa più importante per un regista di horror o thriller.

E quale è il suo rapporto con gli effetti speciali?

Durante la lavorazione di The Ring 2 ho lavorato a stretto contatto con il responsabile per gli effetti speciali, e questa è una buona cosa se la produzione può permettersi ottimi professionisti. In Giappone non ci possiamo permettere di investire grosse cifre sugli effetti speciali ed è anche per questo che in Ringu ho tentato di utilizzarli il meno possibile. Inoltre ho sempre paura che mostrando troppi effetti e troppo make-up il pubblico possa riconoscerne la natura fittizia e, di conseguenza, smettere di aver paura.

Cosa pensa di Kyioshi Kurosawa?

Mi piacciono molto i film di Kurosawa; mi ricordo per esempio di essermi spaventato moltissimo con Cure! Lui è un autore completo che si scrive da solo le sceneggiature e che riesce a trasmettere la sua visione del mondo, come per esempio l’interpretazione della morte che emerge da Kairo, altro grande film. Penso che sia una regista diverso rispetto a me: io miro più all’entertainment per un vasto pubblico, lui è più intellettuale e focalizzato su una personale idea di cinema.

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