Chiacchierando con un amico circa la spazzatura di ogni genere che si può trovare su Internet, il regista Eli Roth viene a sapere dell’esistenza di un sito tailandese che offriva, per la modica cifra di 10.000 $, la possibilità di uccidere una persona. Passano un paio d’anni e Roth, che nel frattempo aveva avuto un successo clamoroso con il suo primo film “Cabin Fever”, si vede proporre dai produttori un soggetto che doveva avere due caratteristiche: spaventare il pubblico e svolgersi in un ostello. Unendo questi spunti alla mai sopita fascinazione per la storia descritta dal sito tailandese, Eli Roth scrive un soggetto e lo fa leggere all’amico (e ormai mentore) Quentin Tarantino, il quale ne è talmente entusiasta da diventare produttore esecutivo della pellicola.
E’ questa la genesi di “Hostel”, uno dei più interessanti ed originali horror degli ultimi anni. La storia coinvolge due ragazzi americani che, insieme ad un amico islandese, stanno girando L’Europa in treno a caccia di brividi forti; arrivati in un ostello di Bratislava i tre cadranno nelle grinfie di un’organizzazione criminale denominata “Elite Hunter”, la quale offre la possibilità di torturare ed uccidere esseri umani in cambio di ingenti somme di denaro. “Hostel” comincia come una scanzonata teen comedy per poi trasformarsi gradualmente (sia a livello narrativo che cromatico) in una cupa discesa negli inferi, dove il dolore e la depravazione umana sono gli incontrastati padroni della scena. Roth, supportato dagli straordinari effetti speciali della KNB, non ci risparmia Fulcianamente nulla: arti mozzati, nervi ottici tagliati, tendini tranciati e fiumi di emoglobina; una violenza graficamente scioccante ma mai gratuita e, soprattutto, funzionale al racconto. Mentre il precedente “Cabin Fever” era un omaggio al cinema americano dei Carpenter, Cronenberg e Romero, “Hostel” è chiaramente influenzato dal cinema asiatico contemporaneo che il regista americano ha conosciuto anche grazie alla stretta frequentazione con Tarantino; due i riferimenti più immediati: l’estremismo surreale del giapponese Miike Takashi (omaggiato in “Hostel” da un veloce cameo) e la poetica della vendetta del coreano Park Chan-Wook. E proprio da questi registi Roth ha mutuato l’uso del registro grottesco, un tocco che serve a stemperare la tensione e ad allargare i confini del “mostrabile” in un’opera al nero che si trasforma (nel finale) in un tragicomico e surreale Comic Book per adulti. Nonostante “Hostel” presenti un vero e proprio bagno di sangue, l’aspetto più inquietante del film risiede nella rappresentazione della sofferenza psicologica: i torturatori, infatti, non sono mostri spaziali o orchi deformi, ma persone “comuni” che per provare il brivido del proibito si trasformano in boia senza scrupoli (impagabile, in questo senso, il personaggio del cliente americano, al quale il regista affida il messaggio politico dell’intero film) e lo spettatore, anche solo per un secondo, non può non identificarsi con essi. Roth lo ha capito e ci gioca. Deliziosamente.
VOTO: 7
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