Si può definire un amante del genere horror?
Direi proprio di sì. Il cinema horror è un genere che ho sempre amato fin da ragazzino ed è grazie ai film horror che mi sono avvicinato al mondo del cinema, anzi: direi che la mia formazione cinematografica si è basata sui film di genere. E per questo che mi considero onorato quando vengo definito “regista di genere”. Io sono un cinefilo a 360 gradi, però, anche se faccio altri generi, sento sempre la necessità di tornare all’horror, perché è da lì che vengo.
Come mai, secondo lei ,nell’horror giapponese, pensiamo anche al suo “Pulse”, ritroviamo questa grande paura della tecnologia?
Io non credo che dietro a Pulse oppure a film come Ringu di Nakata il tema diretto, principale, sia quello della paura della tecnologia. La caratteristica principale del J Horror è quella di collocare le storie in ambientazioni quotidiane come scuole, case, uffici; luoghi molto famigliari e considerati quindi, sicuri, per poi sovvertire questa sicurezza inserendo l’elemento soprannaturale. In questo contesto, i normali oggetti tecnologici come il telefono o il televisore, diventano una sorta di “portale” per l’avvento del soprannaturale, dello sconosciuto. Io credo che questa cosa sia veramente spaventosa perchè gli oggetti in questione provengono dalla vita di tutti i giorni e non da una dimensione parallela o da una grotta millenaria. Inoltre, un’altra caratteristica del J Horror è quella di associare il male non a mostri o a maniaci deformi, ma a persone normali che, spesso senza alcun preavviso, compiono gesti terribili.
Guardando i film del J Horror, l’impressione generale è che tutti raccontino forse il lato peggiore della società giapponese moderna, cioè la solitudine, l’alienazione e la paura di non riuscire ad instaurare delle relazioni affettive durature. Cosa ne pensa?
Sicuramente è vero. Per quanta riguarda il concetto della solitudine, direi che il fenomeno è riscontrabile in Giappone soprattutto nelle grandi aree metropolitane; cosa d’altronde abbastanza comune anche in altre metropoli mondiali. Nel passato i registi giapponesi trattavano temi come la povertà, la discriminazione razziale e la guerra; oggi queste tematiche non sono più così attuali in grandi città moderne come, per esempio, Tokyo. Nella società attuale i problemi si chiamano solitudine e alienazione affettiva, ed è per questo che i registi del J Horror li inseriscono nelle loro storie.
La figura del fantasma, con il suo significato simbolico legato al concetto della “perdita”, è infatti il vettore più adatto per questo tipi di storie; qual è la sua concezione di “fantasma”?
Io penso che se i fantasmi dovessero esistere, sarebbero figure isolate, perennemente avvolte in uno stato di solitudine; non riesco ad immaginarmi, per esempio, una coppia di fantasmi che chiacchiera e se ne va in giro in allegria. Essi simboleggiano, così, quel sentimento di tristezza del quale noi, il più delle volte, non siamo consci nella vita di tutto i giorni: il fantasma rende tutto ciò molto esplicito. Con Pulse ho parlato di questa tematica e l’ho approfondita ancora di più in Retribution.
Un’altra tematica presente nel suo cinema, pensiamo a “Seance” ma anche a “Retribution”, è il senso di colpa…
Sì è vero. Ti confesso che non so neanche io bene il perché, ma è una tematica ricorrente nei miei film e si ritrova anche in Retribution. Io credo che nella società di oggi, soprattutto in una città ultra-moderna come Tokyo, si proceda troppo velocemente verso il futuro, dimenticandosi in fretta il passato. In questo modo si commettono facilmente degli errori e non si riesce a riflettere su quello che la nostra storia ci ha insegnato: tutto ciò mi mette i brividi e mi fa sentire in colpa. Nei miei primi film ci sono dei personaggi che incarnano un enorme senso di colpa.
Un’ultima domanda:conosce l’horror italiano?
Certo, ho visto alcune cose e posso dirti che sono un grandissimo fan di Mario Bava.
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