Saggi
“In America non si può pensare di fare carriera continuando solo a fare horror. La cultura americana ghettizza l’horror nella serie B e quindi non importa quanti film hai fatto o quanto soldi investi in un film horror: sarai sempre etichettato come un regista di B movie e basta”. L'autore di questa amara riflessione è Joe Dante, baby boomer cresciuto a pane e Universal monsters e che deve la sua identità da “monster kid” a Forrest J. Ackerman, guru del cinema fantastico che grazie al mitico magazine Famous Monsters of Filmland ha riunito sotto la sua ala un'intera generazione di ragazzini confusi ma entusiasti, affascinati dal ghigno di Boris Karloff e dal mantello di Bela Lugosi. Divorando costantemente quelle pagine sacre, il giovane Dante (che aveva imparato la prima lezione sul grande potenziale emotivo del Cinema dalla visione di “Tarantola”) non è cresciuto pensando che quel “cinema di mostri” che a lui piaceva tanto fosse “di serie B”, anzi, per lui (e per molti autori a lui contemporanei) quello sembrava l'unico cinema possibile. Un universo formativo ricco di contenuti (in primis il “tema del diverso”) e suggestioni (anche visive) che avrebbero accompagnato per sempre la carriera di Dante, cartoonist mancato (d'altronde quale forma d'arte sembra più libera, creativa e scevra da limitazioni che non quella del cartone animato?!) che, però, è entrato nel mondo del cinema dalla porta principale, ovvero attraverso la Corte dei Miracoli di sua maestà Roger Corman. Quando ha lasciato Philadelphia per raggiungere l'amico Jon Davison al nuovo dipartimento permanente dedicato al montaggio dei trailer della New World Pictures, Los Angeles era ancora la “fabbrica dei sogni”. Accanto ai grandi Studios, infatti, esisteva una vera e propria industria del cinema di genere di cui la factory fondata da Corman rappresentava uno dei poli principali. In un mondo in cui la definizione “B movie” non aveva ancora nulla di dispregiativo, Dante ha imparato sul campo (e meglio che in qualsiasi scuola istituzionale) l'intero meccanismo che regola la Macchina Cinema. Purtroppo, però, quel mondo idilliaco e spumeggiante stava vivendo gli ultimi fasti prima del declino. Tra il 1975 ed il 1978 (ovvero quando Dante gira i primi due film da regista per la New World Pictures: “Hollywood Blvd” e “Pirana”) vengono distribuiti due film (“Lo Squalo” e “Guerre Stellari”) che, con l'impatto sul Mercato di una bomba nucleare, rivoluzionano per sempre le regole del gioco: i cosiddetti “B movie” vengono ora realizzati dagli Studios con budget faraonici, campagne pubblicitarie su scala nazionale e, soprattutto, distribuiti nel circuito Mainstream.
Fortunatamente per Dante, però, il successo di “Pirana” gli consente di continuare a lavorare affrancandosi dalla New World per passare alla Avco Embassy che, con un budget decisamente più significativo, gli produce “L'ululato”, splendida fiaba gotica contemporanea sceneggiata da John Sayles e con gli effetti speciali di un certo Rob Bottin. Il film contiene già tutte le caratteristiche che, da li in avanti, avremmo imparato ad amare nel cinema di Joe Dante: dialoghi intelligenti e mirati, estrema cura della fotografia, cinefilia allo stato puro ricca di omaggi e citazioni (anche) dissacranti, sottotesti sociopolitici e, soprattutto, un uso equilibrato ed estremamente graffiante dell'umorismo. Questo particolare mix di qualità attirano l'interesse di un alieno conosciuto con il nome terrestre di Steven Spielberg, il quale affida a Dante la regia di “Gremlins” (1984), ad oggi il suo più grande successo commerciale. E' difficile spiegare a parole la chimica che governa una pellicola magica come “Gremlins”; l'equilibrio fra horror e commedia funziona alla perfezione e dopo più di trent'anni ci ritroviamo a guardare un film che non sembra invecchiato di un giorno. La metamorfosi del dolcissimo Mogway in un cattivissimo Gremlin diventa la metafora della doppia faccia del Sogno Americano e la fotografia di un'America in cui la Reaganomics stava allargando a dismisura la forbice sociale.
Il cinema fantastico americano degli anni Ottanta, al suo meglio, racconta questa realtà (pensiamo solo a “I Goonies” o a “Essi Vivono”) e Joe Dante ne diventa uno dei suoi più illuminati esponenti. Tra i registi più coscientemente politici del New Horror americano, Dante ha spesso impreziosito i suoi film con un intelligente secondo grado di lettura che, lontano dall'essere didascalico, non ha mai interferito con il vero scopo del suo cinema: l'Entertainment. Un percorso ben delineato che parte da “Pirana” e “L'Ululato”, per passare da “The Burbs”, “Matinée”, “Small Soldiers” e “La seconda Guerra Civile Americana” fino a quell'autentico, piccolo capolavoro intitolato “Homecoming” (Masters of Horror – Stagione 1). E se analizziamo la filmografia di Dante da questo punto di vista può sembrare assurdo constatare come Joe, nel corso della sua carriera, non abbia mai avuto nessun problema di censura politica da parte degli Studios, quanto, piuttosto, abbia dovuto affrontare battaglie infinite per mantenere questa o quell'altra scena all'interno di un film. Contenziosi artistici che da una parte vedono un regista colto, appassionato e determinato ad ottenere il meglio da una storia, dall'altra degli executive di trent'anni più giovani, completamente allo scuro della storia del cinema e che per valutare un'opera utilizzano grafici di mercato e, cosa peggiore di tutte, i terrificanti (è per questa ragione che Ideo Nataka è scappato da Hollywood...) screen test con pubblico “a campione”. Joe ama il cinema e, come tutti i cinefili incalliti, vive di cinema; è per questo che amiamo così tanto i suoi film. E non importa che un film sia più riuscito di un altro: quando andiamo a vedere un film di Joe Dante abbiamo l'indissolubile certezza che parlerà il nostro stesso linguaggio. E non sono tanti, al giorno d'oggi, i registi dei quali si possa dire lo stesso. Per citare uno dei più grandi film horror della storia del cinema: Joe is “one of us” e, per questo, gli vogliamo bene.
Paolo Zelati
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