Interviste
Roger, come mai è passato tanto tempo dal tuo ultimo film come regista?
Dopo il successo di “Killing Zoe” ho ricevuto tantissime offerte da parti dei grandi studios, ma per una ragione o per l’altra questi film non andavano mai bene. Ai produttori piacevo perché avevo questa reputazione di regista pericoloso, ma in realtà non mi avrebbero mai lasciato fare quello che volevo. Erano solo attirati dall’”idea” di Roger Avary: io non interessavo! Poi sono passati gli anni, ho continuato a scrivere, sai…”Pulp Fiction” mi aveva dato una certa sicurezza anche economica, ho avuto dei bambini, ma non ho mai smesso di scrivere i film che volevo fare…e quando li scrivo è come se li girassi nella mia testa: in realtà “Rules of Attraction” è il mio settimo film!
Cosa ti ha colpito maggiormente del romanzo di Ellis?
Sicuramente il tema della ricerca di identità e anche tutto il discorso sul tempo e la sua percezione. Ho letto il libro 14 anni fa, quando ero al College, e mi ricordo che risi moltissimo perché è un romanzo veramente divertente; inoltre era incredibilmente attinente alla mia esperienza, a ciò che vedevo quotidianamente intorno a me. Dovevo fare questo film! Il problema era come adattare per lo schermo un libro praticamente senza forma narrativa, tanti capitoli narrati da diversi punti di vista…quasi un continuo stream of consciousness. Mi ci sono voluti come minimo 12 anni per pensare ad un adattamento che poteva funzionare… fortunatamente ho trovato i diritti del libro ancora disponibili! Inoltre penso che non avrei potuto fare questo film in un altro periodo della mia vita: sono abbastanza distante dall’epoca del college per poter riflettere su quelle esperienze a mente fredda e contemporaneamente non sono troppo vecchio per essermene dimenticato.
Come ti è venuta l’idea di scegliere James Van Der Beek per il ruolo di Sean Bateman e di stravolgere completamente l’educato e amato personaggio di Dawson’s Creek?
Quando qualcuno mi disse: “che ne pensi di Van Der Beek per il ruolo?”, io reagii come ti puoi immaginare: “Dawson?!!! Ma sei scemo?”. Poi però lo volli incontrare; eravamo a cena insieme quando, ad un certo punto, James si tolse gli occhiali da sole e io capii guardandolo negli occhi, in mezzo secondo, che era la persona che cercavo. Infatti lui ha questa capacità di mostrare il freddo, scuro, vuoto interiore di cui avevo bisogno, contemporaneamente ad un grande carisma: è proprio questo che rappresenta il conflitto interiore del personaggio di Sean Bateman, e James l’ha capito al meglio. Quello che volevo fare con questo film è prendere il teen-movie e dargli il colpo di grazia, usare e rimodellare i cliché e anche gli attori del genere per darne una versione distorta.
Quindi l’utilizzazione di Van Der Beek può essere interpretata come un simbolo di questa operazione…
Esattamente. Quello che non avevo previsto è la grande esperienza che hanno questi giovani attori. Loro lavorano 200 giorni all’anno davanti alla macchina da presa, che è molto di più di qualsiasi attore che normalmente lavora due o tre mesi all’anno (quando è fortunato). Il fatto è che il materiale con cui lavorano è mortalmente noioso e senza sviluppo, quindi questi ragazzi si sentono frustrati, incatenati a degli stereotipi. Quello che io ho fatto è stato liberarli e lasciare che si esprimessero a fondo…e per un regista come me è stata un’esperienza gratificante! Nessuno sa, per esempio che James ha cominciato la sua carriera di attore a Broadway…
Da fan di Ellis cosa pensi dell’adattamento cinematografico di “American Psyco” fatto da Mary Harron?
Devi sapere che quando i produttori comprarono i diritti per A.P. mi proposero di dirigere il film. Io ero veramente eccitato perché amo l’opera di Ellis. Così mi sono messo avidamente a rileggere il libro, ma giunto circa a metà lettura ho capito che era troppo per me! Ho chiuso il libro, ho telefonato ai produttori e ho detto loro: “Ho deciso che non dirigerò “American Psyco” e inoltre vi imploro di non fare mai questo film!”. Nel corso dei successivi 6 o 7 anni ho pensato spesso a come si sarebbe potuto fare, ma quando ho capito come farlo, il film era già stato realizzato.Comunque il film della Harron mi piace, soprattutto perché ho apprezzato la recitazione di Christian Bale, penso che abbia fatto una interpretazione molto dettagliata e coraggiosa. Io comunque avrei fatto un film completamente diverso…il problema fondamentale risiede nel fatto che la Harron ha eliminato gli artifici letterari usati da Ellis, che dovrebbero invece essere adattati anche a livello cinematografico perché sono necessari per trasmettere le tematiche affrontate nel libro. Togliendo gli artifici si toglie anche buona parte della forza espressiva di Ellis.
Artifici che tu hai cercato di adattare in “Rules of Attraction” con l’uso dello split-screen e del rewind?
Esatto. Era l’unico modo di trasportare correttamente i diversi punti di vista sulla verità espressi soggettivamente dai personaggi. Avevo già molta esperienza con la struttura narrativa non lineare grazie a “Pulp Fiction”, e questo mi ha aiutato a trovare la giusta forma cinematografica per adattare la struttura narrativa di Ellis. Questo non è mai facile perché l’esperienza del guardare un film è molto diversa dalla lettura di un libro.
Puoi raccontarmi qualche retroscena curioso della lavorazione di “Killing Zoe”?
Certo! Mi piace sempre molto parlarne. Una cosa che forse non tutti sanno è che il film lo abbiamo girato a Los Angeles e non a Parigi. Ma quello che ti voglio raccontare riguarda il clima fantastico che si era creato sul set e il mio rapporto con il cast, una cosa che non mi è più capitata. Io chiedo sempre agli attori di portare la realtà dentro al personaggio che interpretano utilizzando le proprie esperienze, le emozioni e i sentimenti più nascosti. Mi ricordo che la prima stesura dello script di “Killing Zoe” non andava mai bene: dopo avere provato con gli attori ero sempre costretto a riscrivere le scene! C’è una scena nel film dove i rapinatori entrano nel cavò della banca e trovano la montagna di oro: lo script prevedeva che il personaggio di Jean-Hugues Anglade dovesse reagire come un pazzo invasato, urlando e ballando vorticosamente. Però quando girammo la scena era l’ultimo giorno di riprese di Jean-Hugues e dato che avevamo stretto uno splendido rapporto, lui era molto triste e mi ha detto che non avrebbe avuto l’energia per interpretare la scena in quel modo. Così decisi di adattare la scena allo stato emotivo di Jean-Hugues: mi sistemai personalmente dietro alla macchina da presa e allontanai tutti dal set tranne il tecnico del suono. In questa situazione venne fuori una sequenza molto intima e Jean-Hugues si mise a piangere liberando tutta la sua tristezza. Quando rivedo il film mi sembra che la pellicola abbia catturato un po’ della nostra anima…non solo sono attori-burattini che recitano una parte, è realtà. E per me questa è la cosa che ti avvicina di più all’immortalità.
Non hai più ottenuto questi risultati con altri attori?
Dopo “Killing Zoe” pensavo che non mi sarebbe più capitata un’esperienza simile. Invece in “Rules of Attraction” mi è successo di nuovo. La scena in cui la ragazza trova il corpo della sua amica nella vasca da bagno è la mia preferita di tutto il libro, così ricca di humor nero da essere terribilmente divertente. Quando la girammo una prima volta, non ero molto soddisfatto del risultato e così quando Shannyn Sossamon mi ha chiesto se ero soddisfatto, non ho potuto mentirle. Nonostante fossimo in ritardo con i tempi di lavorazione, Shannyn mi convinse a girare un altro ciak: il risultato è stato incredibile, tutto talmente spontaneo e naturale che non sarei mai stato capace di scriverlo.
Adesso l’ultima domanda alla quale puoi anche non rispondere: qual è il tuo rapporto, oggi, con Quentin Tarantino?
Rispondo sicuramente! Devi sapere che la stampa ha creato un grosso misunderstanding circa il nostro rapporto…perché io voglio veramente bene a Quentin, come ad un fratello…lui è il mio più caro e vecchio amico oltre ad essere un grande artista e l’unico regista con il quale posso dire di essere in sintonia. Quello che è successo è molto semplice: come tutti i veri amici, anche a noi capita di discutere e di mandarci a fare in culo, ma poi la cosa finisce lì. La stampa invece ha ingigantito la cosa per avere una notizia da raccontare. La verità è che è sempre più difficile per noi incontrarci, infatti quando io ho del tempo libero lo dedico alla mia famiglia e ai miei bambini. L’altro problema serio, sul quale non voglio mentirti, è dato dal fatto che sia io che Quentin siamo registi-sceneggiatori e tutto quello che ci diciamo può diventare fonte di ispirazione…oggi non è più come quando scrivevamo insieme dietro al bancone del videonoleggio dove lavoravamo, le dinamiche sono cambiate: siamo entrambi professionisti e dobbiamo stare attenti a quello che ci diciamo!
Questo mi fa venire in mente la controversia sulla paternità del monologo sul significato gay di “Top Gun” che Quentin recita in “Il tuo amico nel mio letto”: è vero che l’idea era tua?
Sì l’idea era proprio mia! E questo è stato uno dei motivi del litigio tra me e Quentin. Io gliene avevo parlato e poi l’avevo già inserito all’interno di una sceneggiatura. Una sera ero a cena con Eric Stoltz e sua moglie e gli stavo spiegando la scena, quando Eric mi dice: “Mi dispiace molto Roger…ma Quentin ha già “improvvisato” questo monologo sul set del mio ultimo film!”. All’inizio mi arrabbiai molto, ma poi vedendo la scena fui anche contento di come l’aveva recitato anche se aveva saltato dei pezzi…il punto è che lo sapeva che faceva parte di una mia sceneggiatura!!! Ero più arrabbiato con me stesso per non aver tenuto la bocca chiusa. Come vedi non è facile…ma quello che oggi mi piacerebbe fare insieme a Quentin è un commento audio di “Top Gun”, magari per un nuovo DVD…sarebbe veramente cool!
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