Il 20° Torino Film Festival ha presentato quest’anno, fuori concorso, “Spider”, l’ultimo struggente film di David Cronenberg. Dopo “Il Pasto nudo”(1992), il regista canadese si cimenta con un’altra difficile trasposizione cinematografica tratta da un romanzo complesso come Spider di Patrick McGrath. Questa volta non si tratta di dare corpo all’universo acido e allucinato di William Burroughs, ma la posta in gioco è paradossalmente ancora più difficile se si pensa che il romanzo di McGrath racconta la storia di uno schizofrenico che ritorna nei degradati luoghi della sua infanzia per ripercorrere una seconda volta la scena del suo matricidio; un intricatissimo viaggio nella mente umana, dove passato e presente, realtà e allucinazione si fondono senza soluzione di continuità, lasciando il lettore senza punti di riferimento e quindi totalmente spiazzato.
Il film di Cronenberg riesce perfettamente a trasmettere questa sensazione di smarrimento, con una messa in scena pulita ed essenziale, supportata dalla splendida fotografia monocromatica di Peter Suschitzky che infonde alla pellicola un onnipresente colore grigio-ocra che veicola metaforicamente la desolazione e la sofferenza del protagonista. Una sofferenza, dicevo, tutta psicologica che non lascia spazio alle tipiche ossessioni cronenberghiane legate alla mutazione organica, alle trasformazioni e, quindi, a quell’”evidenza del mostruoso” che ha accompagnato quasi tutte le opere precedenti del regista. Ciò non vuol dire, però, che la metamorfosi non avvenga. Al contrario; essa avviene sul volto di Miranda Richrdson (la madre contemporaneamente santa e puttana) che continua a mutare impercettibilmente per tutta la durata della pellicola, espandendosi come un contagio fino ad una confusione di identità che coinvolge tutte le donne del film e che rapporta simbioticamente la visione dello spettatore con quella malata del protagonista. “Spider” è un film, dunque, che non colpisce (subito e solo) a livello viscerale, ma l’angoscia e l’inquietudine che riesce a trasmettere fermentano nella memoria e, proprio come accade al protagonista (che cerca di ricomporre i suoi ricordi), emergono lentamente quando, ripensando alla vicenda, tutti i tasselli (forse) prendono il loro posto. Guardando l’ultimo capolavoro del regista canadese si ha davvero l’impressione, quasi tangibile, di percorrere insieme al protagonista (un Ralph Fiennes strepitoso) un tormentato ed ossessivo viaggio nella psiche umana. Già dagli stupendi titoli di testa in cui scorrono delle macchie sul muro che rimandano direttamente alle tavole di Roshark si poteva leggere una dichiarazione di intenti da parte di Cronenberg, il quale ci presenta una delle più interessanti e profonde riflessioni sul tempo e sul valore della memoria degli ultimi anni (ben superiore a certi esercizi di stili alla “Memento”). In ultima analisi, quindi, un film coraggioso e complesso, controverso ma mai ricattatorio e assolutamente irrinunciabile
VOTO: 8
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